Infatti, dopo aver prodotto nel 2018 le modifiche volute dal decreto Dignità che hanno riproposto il sistema e lo sbarramento delle causali che il decreto anticipatorio del Jobs Act e il Jobs Act stesso avevano abolito, in periodo pandemico si è assistito da un lato alla temporanea sospensione del sistema delle causali per le proroghe e i rinnovi dei contratti cadenti durante l’emergenza sanitaria, creando le premesse per l’ultimo annunciato correttivo.
La disciplina del contratto a tempo determinato – e per alcuni versi anche della somministrazione di lavoro unificata ahimé nel regime normativo – che abbiamo oggi è l’impianto sul quale si inseriscono le modifiche previste dalla bozza del nuovo decreto lavoro – il decreto 1° maggio) che, con la finalità di “perseguire la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato”, come si legge nella relazione di accompagnamento, pare reintrodurre in modo maldestro e ferraginoso il vincolo delle causali con un ritorno al sistema della delega alla contrattazione collettiva, prevedendo in sua assenza (eventualità non remota) un appesantimento burocratico attraverso il vincolo della certificazione delle causali da parte delle Commissioni di certificazione.
Con importanti implicazioni. Ma andiamo con ordine.
Vediamo innanzitutto brevemente cosa è avvenuto in questi ultimi anni e dove si colloca oggi la disciplina in fase di approvazione. La disciplina del contratto a tempo determinato rivista – rispetto a quanto contenuto nel D.Lgs. n. 368/2001 attuativo della disciplina comunitaria – dal Jobs Act nel 2015 (artt. da 19 a 29 del D.Lgs. n. 81/2015) mirava ad introdurre un ricorso più libero a tale forma di contratto – pur mantenendosi entro il limite massimo di durata inizialmente di 36 mesi e oggi di 24 mesi – grazie alla totale eliminazione delle causali, purché il ricorso a tale forma di contratto fosse non solo contenuto entro precisi limiti quantitativi, “salvo diversa previsione dei contratti collettivi” (anche territoriali o aziendali), ma effettivamente necessario in relazione agli obiettivi dell’organizzazione. Elemento, quest’ultimo non da poco da un punto di vista di strategia imprenditoriale, considerato che dal 2008 siamo ormai costantemente immersi in continue e cicliche crisi economiche che vanno affrontate anche con la consapevolezza di poter ricorrere anche a strumenti contrattuali di flessibilità organizzativa quali appunto il contratto a termine e la somministrazione di lavoro. All’epoca dell’approvazione del Jobs Act questa consapevolezza aveva aperto in modo più significativo al contratto a termine a-causale, ma sul presupposto della necessaria permanenza di un principio cardine anche della disciplina comunitaria sul contratto a termine, ossia il principio contenuto nell’art. 1 dello stesso Jobs Act che “il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”.
Anche la somministrazione di lavoro, introdotta dal D.Lgs. n. 276/2003 quale superamento della previgente disciplina del lavoro interinale (di cui alla legge n. 196/1997) aveva finito per restare coerente a tale principio sul presupposto – riaffermato peraltro dalla giurisprudenza comunitaria – che le due tipologie contrattuali sono non solo diverse, ma rispondono anche a diverse finalità (artt. da 30 a 40 del D.Lgs. n. 81/2015).
Su questo impianto, il decreto Dignità del 2018 – frutto della scarsa conoscenza del ruolo e dell’importanza di questi strumenti contrattuali, ma annunciato dalla volontà di intervenire sul “precariato” – aveva voluto limitare la a-causalità tenendola circoscritta, per i contratti stipulati successivamente al 14 luglio 2018, ai soli primi 12 mesi di rapporto (anche per i contratti a tempo determinato stipulati a scopo di somministrazione di lavoro). Dopo tale periodo, quindi sia in caso di durata iniziale superiore a 12 mesi (ma non superiore nel massimo a 24 mesi), sia in caso di proroga sopra i 12 mesi e di rinnovo dopo gli iniziali 12 mesi, il contratto a tempo determinato è tornato ad essere caratterizzato dalla necessità della causale ossia:
a) esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori;
b) esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria.
A queste causali (impossibili nella loro verificazione concreta e reale nella vita delle aziende) le necessità – di estrema flessibilità organizzativa – portate dall’emergenza sanitaria hanno poi inserito una nuova previsione (la lettera b-bis) del comma 1 del citato art. 19): per specifiche esigenze previste dai contratti collettivi di cui all’art. 51 del D.Lgs. n. 81/2015. Disposizione, quest’ultima introdotta appunto in periodo pandemico, consentita a decorrere dal 25 luglio 2021, ma con valenza solo fino al 30 settembre 2022 (art. 41-bis, D.L. n. 73/2021, convertito in legge n. 106/2021 – decreto Sostegni bis). Dopo il 30 settembre 2022 la possibilità del ricorso al contratto a tempo determinato per durate superiori ai 12 mesi è ritornata ad essere agganciata alle sole alle sole esigenze definite alle lett. a) e b) del citato c. 1 dell’art. 19.
Il nuovo decreto lavoro, stando alle previsioni di modifica annunciate, interverrebbe proprio su questi aspetti.
In primis, vengono definitivamente abrogate (e questa è davvero l’unica buona notizia) le “causali impossibili” sopra riportate così come individuate dal primo comma dell’art. 19 del D.Lgs. n. 81/2015 dopo le modifiche apportate dal decreto Dignità, consapevolmente introdotte per disincentivare l’utilizzo dei contratti a termine oltre i 12 mesi. Ma la vera novità – e quella più critica dal punto di vista operativo – sembrerebbe essere quella prevista dalla seconda parte della norma. Di fatto pare che nella previsione del nuovo decreto l’apposizione del termine superiore ai 12 mesi – non eccedente comunque i 24 mesi – torni ad essere giustificata da “ragioni tecniche, organizzative e produttive” – con formula analoga a quella già prevista dal D.Lgs. n. 368/200, che potranno essere riconosciute come tali dalla contrattazione collettiva, anche aziendale (ipotesi, peraltro, già prevista dalla citata lettera b-bis) del comma 1 art. 19 D.Lgs. n. 81/2015.
In caso di mancato esercizio di tale delega da parte della contrattazione collettiva (il che appare molto probabile non essendo questo un periodo favorevole agli accordi liberalizzanti i contratti a termine), ai sensi della nuova lettera b) dell’art. 19, le ragioni tecniche, organizzative e produttive, giustificative dell’apposizione del termine al contratto di lavoro, dovranno essere preventivamente certificate presso una delle sedi delle Commissioni di certificazione, di cui agli artt. 75 e ss. D.Lgs. n. 276/2003. Infine, la lettera c) del nuovo art. 19 del D.Lgs. n. 81/2015, che sostituisce la precedente lettera b-bis), prevederebbe quale ultima condizione che può giustificare l’apposizione del termine superiore ai 12 mesi – e comunque non eccedente i 24 mesi – il mantenimento dell’esigenza di sostituire altri lavoratori.
In definitiva, sul ruolo della contrattazione collettiva soprattutto di livello aziendale non pare si possa essere particolarmente ottimisti: la discussione sindacale sui contratti a termine è sempre stata molto difficoltosa e non è mai parsa particolarmente aperta all’allargamento delle causali.
Sul ruolo, poi, della certificazione delle causali in sede di Commissioni di certificazione occorrerà vedere nella pratica come andrà effettivamente. Il meccanismo di controllo e verifica amministrativa delle causali oltre i 12 mesi – previsto, nel silenzio della legge, anche solo per i rinnovi dei contratti oltre i 12 mesi – non tiene conto infatti dei tempi, spesso lunghi, di convocazione delle commissioni e delle oggettive difficoltà che potranno riscontrarsi soprattutto tra la fine del primo contratto e l’avvio di quello successivo, con inevitabile stop occupazionale/lavorativo a danno delle aziende, ma anche dei lavoratori che, in attesa della sottoscrizione del nuovo contratto (o del rinnovo) da formalizzarsi in Commissione di certificazione, si vedranno sospendere l’attività lavorativa per non incorrere nelle gravi sanzioni previste dalla legge (conversione del contratto a termine in uno a tempo indeterminato).
Quanto ai benefici della certificazione, anche su questo punto bisogna essere molto cauti, perché anche una volta certificata la causale, sarà sempre possibile per il lavoratore contestarla, non tanto sotto il profilo della sussistenza originariamente “certificata” ab origine, quanto piuttosto sotto il profilo di come poi concretamente attuata in aziendain relazionealle mansioni effettivamente svolte ed alla posizione ricoperta. Ad esempio, se inseriamo la causale a termine “picco di lavoro” il lavoratore dovrà poi essere concretamente addetto alla linea produttiva interessata dal picco produttivo e non altrove e sarà questa l’attività di verifica del giudice del lavoro che potrà sempre condurre alla trasformazione del contratto a termine con buona pace dell’intervenuta certificazione.
Di fatto si tratta di un meccanismo burocratico che inevitabilmente comporterà nella pratica una riduzione delle assunzioni con contratto a termine ad un massimo di 12 mesi, comportando, peraltro, un aumento del turn over dopo i primi 12 mesi, con grave danno per i lavoratori e con un incremento – stavolta sì – del precariato.
Fonte: Ipsoaquotidiano